Regio Decreto del 12 Agosto 1890 della Prima tassa sul
bestiame deliberata dal Comune di Rocca d'Arce
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ARANDORA STAR
Cosa potrebbe interessare l'Arandora Star a noi cittadini di
Rocca d'Arce? Seguitemi in questo Racconto ...
Durante la seconda guerra mondiale, i Paesi di entrambi gli schieramenti applicarono l'internamento dei cittadini originari dei Paesi nemici per scongiurare lo spionaggio. La nave britannica quindi fu adattata a trasportare internati dell'Asse in Canada. Gli internati erano cittadini italiani e tedeschi di sesso maschile, molti immigrati nelle Isole britanniche da decine di anni, tanto che molti avevano parenti, anche figli, che militavano nell'esercito britannico. A costoro vennero negati i diritti civili e politici, compresi quelli riconosciuti ai militari secondo la Convenzione di Ginevra. A molti vennero confiscate le proprietà. Ai familiari non fu detto che i parenti arrestati sarebbero stati deportati. Per disposizione del governo britannico, le famiglie degli internati residenti sulla costa, senza sostentamento e assistenza, furono costrette a trasferirsi nelle città.
Il primo di luglio del 1940, l'Arandora Star salpò da Liverpool senza alcuna scorta, sotto il comando di Edgar Wallace Moulton fece rotta per trasportare in un campo di prigionia canadese circa 1500 uomini.
Esclusi 86 prigionieri di guerra, tutti gli altri uomini erano civili tra i 16 e i 70 anni. La nave fu sovraccaricata e non fu rispettato il rapporto massimo passeggeri per scialuppa. I prigionieri furono ammassati nelle cabine, molti dormivano sul pavimento della sala da ballo. La nave, senza giustificazione funzionale, era stata ridipinta di grigio. Non esponeva segnali che potessero far identificare la sua funzione, come il simbolo della Croce Rossa. Né all'equipaggio, né ai prigionieri furono date istruzioni sulle procedure d'emergenza.
L'Affondamento
Il 2 luglio 1940, a largo della costa nord-ovest dell'Irlanda, fu colpita da un siluro lanciato da un U-47 tedesco. L'equipaggio dell'U-Boat dichiarò in seguito di essere stato tratto in inganno dalla livrea grigia che faceva sembrare la nave da crociera un mercantile provvisto di armi in dotazione alla marina britannica. L'Arandora Star, senza più potenza motrice, affondò in trentacinque minuti. Persero la vita più di ottocento persone, 446 erano italiani.
Le operazioni di salvataggio
La nave, alla partenza del suo ultimo viaggio, era fornita di quaranta scialuppe. Tale numero era insufficiente per il numero di passeggeri. Molte di tali scialuppe erano separate dal ponte con filo spinato. Una di esse fu subito distrutta dall'impatto del siluro, problemi tecnici impedirono di calarne un'altra delle quaranta in mare, e altre due furono danneggiate durante il loro ammaraggio. Almeno quattro delle rimanenti furono ammarate con un numero di passeggeri molto inferiore alla capienza. Un'altra affondò durante l'ammaraggio.
Il comandante Otto Burfeind della nave tedesca SS Adolph Woermann, che era tra i prigionieri, rimase a bordo della nave organizzando l'evacuazione della nave e risulta disperso.
Dopo aver mandato in avanscoperta un idrovolante Sunderland a rintracciare l'SOS, l'incrociatore canadese HMCS St. Laurent riuscì a portare in salvo 586 opersone, i feriti furono trasportati al Mearnskirk Hospital.
Dopo l'affondamento
Il comandante britannico Edgar Wallace Moulton, il comandante canadese Harry DeWolf ed il capitano tedesco Otto Burfeind ottennero riconoscimenti per il loro eroismo.
Ai prigionieri superstiti non vennero riconosciuti i diritti civili nonostante tutto; molti di loro furono deportati nelle colonie britanniche dell'Oceania. I famigliari delle vittime non hanno mai ricevuto scuse ufficiali, né un risarcimento.
Commemorazioni
L'affondamento avvenne nel luogo di coordinate 56°30′N 10°38′W / 56.5, -10.633. I corpi dei naufraghi dell'Arandora Star furono trasportati dal mare su vari punti delle coste dell'Irlanda e delle Ebridi. Ci sono quindi diversi luoghi di sepoltura e di commemorazione. Il più recente si trova sull'isola scozzese di Colonsay, inaugurato il 2 luglio 2005, nel sessantesimo anniversario della tragedia: il sito è dedicato "alla memoria di Giuseppe Del Grosso e agli altri più di ottocento che perirono con l'Arandora Star il 2 luglio 1940".
Nel luglio del 1990, cinquantenario della tragedia, il presidente della Repubblica Francesco Cossiga nominò Cavalieri i circa venti sopravvissuti ancora vivi.
Nel febbraio 2003 a Lucca è stato presentato un documentario sulla vicenda alla presenza dei sopravvissuti: il documento è stato realizzato sulla base delle ricerche effettuate da Maria Serena Balestracci autrice anche del libro "Arandora Star: Una tragedia dimenticata". Il presidente Carlo Azeglio Ciampi ha partecipato all'evento con una lettera commemorativa.
La vicenda degli internati e della fine tragica viene commemorata dal gruppo Musicisti Basso Lazio (M.B.L. venuti a Rocca d'Arce nell'agosto 2007) con la canzone Arandora Star.
Le Vittime Italiane
I caduti italiani erano di tutte le estrazioni sociali e avevano una età che andava dai 16 ai 68 anni. Tra questi c'era il nostro concittadino:
ROCCANTONIO FRANCESCO nato a Rocca d'Arce il 23.10.1875
di anni 65 fatto prigioniero a Peebles (Regno Unito).
Mi sento il dovere di rendere Onore anche ad un cittadino di Arce.
FORTE ONORIO nato ad Arce il 02.05.1880
di anni 60 fatto prigioniero a Chorlton Medlock (Regno Unito).
Tessera di un Cacciatore di Rocca d'Arce iscritto
all'Associazione Nazionale Fascista
Cacciatori Italiani
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Tessera di Iscrizione alla Gioventù Italiana
del Littorio
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Attività carbonare a Roccasecca e dintorni di Fernando Riccardi
Nell’aprile del 1823, come si evince da un voluminoso fascicolo conservato nell’Archivio di Stato di Caserta1, ha inizio un processo contro 51 persone del distretto di Sora, indiziate di appartenere alla setta carbonara denominata “Nuova Riforma di Francia”. Le indagini erano già iniziate nei primissimi giorni dell’anno, come attesta un documento “riservatissimo”, datato 16 gennaio ed inviato da Giuseppe Tamburrini, ispettore commissario di polizia nel distretto di Gaeta e Fondi, al Segretario di Stato Ministro della Polizia Generale. Ne riportiamo la lunga parte iniziale: “Incomincia a propagarsi una nuova setta, sotto il titolo della Nuova Riforma di Francia che in se abbraccia le sette riformate della Massoneria, Carboneria, de’ Greci in solitudine e de’ Patriotti Europei. Tale riforma si dice emanata dalla Francia, da dove nel passato anno vennero spediti circa 700 Emissari per ogni Stati di Europa, ed in specialità per l’Italia, spiegandosi in su le prima in Bologna, ed in Roma: Da Roma si è diffusa su i paesi della frontiera, Frosinone, Ceprano, Pofi, Monte San Giovanni, e quindi nelle Comuni del Regno, Arce, Rocca d’Arce, Roccasecca, Caprile, Palazzolo, tutti del Distretto di Sora, e San Giovanni Incarico nel Distretto di Gaeta. Essa ha di oggetto la istituzione di un Governo Repubblicano, e per dare la mossa alla Rivoluzione, si aspetta la morte del Papa.
Questa riforma abbraccia due gradi per quanto si è saputo da quest’organo. Il primo contiene sette Età, e due altre il Secondo Grado: in tutto nove, e che sembra essere l’ultimo. Il primo grado vien chiamato di Laico, ed il Secondo di Eremita. Un sol riformato può riceverne un altro da solo a solo. Non può l’uno svelare ad altro il Nome delle persone ricevute, ma debbono riconoscersi dai Segni. Non vi sono luoghi di riunione. Non hanno Diplomi. Le riunioni si fanno dovunque. Ed una Sola Medaglia è il distintivo, che in caso di bisogno, l’uno manifesta all’altro. Questa ha per emblema quattro fucili, quattro bajonette, e quattro Nastri2. Si vuole che queste medaglie si fondono in Pofi da un armiere di cognome Cascarino cui vengono date le commissioni. Dopo gli sperimenti, e persuasione di sentimenti e di essere stati appartenuti ad altra setta prima di comunicargli la Riforma gli si fa prestare il giuramento del tenore e nel modo che siegue. L’Iniziato porta la mano dritta su di un Cristo, che per lo più i riformati portano nel rivolto della manica dell’abito. Io giuro sotto la nuova riforma di Francia in nome di Gesù Cristo, di S. Giovanni Battista, di S. Teobaldo e S. Vincenzo Ferreri di essere fedele e costante a conservare i segreti, parole, Segni, toccamenti, e tutt’altro di questa nuova riforma; E se io mancassi a quanto ho di sopra giurato, le mie carni sieno fatte a pezzi, e le mie ceneri buttate al vento. Il Signore mi sia di aiuto. Per farsi riconoscere, il segno è un saluto con cappello stringendone la falda alla parte di avanti colle dita indice e pollice della mano dritta, tenendo le altre tre alzate in aria, e dando al cappello una piccola calcatina. A questo saluto si risponde: colla mano dritta si tocca la spalla sinistra portandola involontariamente al fianco dritto. Dopo questo segno, e risposta si passa alle seguenti domande. Perché avete fatto questo segno al cappello? Perché io non conosco nessuno in questo mondo. E voi perché mi avete fatto questo segno involontariamente colla mano dritta alla sinistra? Perché io ho un pugnale pronto per gli oppressori dell’Italia ed ho un fucile pronto per questo stesso oggetto. Dov’è il vostro diploma? Il mio Diploma? Il mio Diploma è una medaglia tonda con quattro fucili, quattro bajonette e quattro nastri, che porto appesa in petto. Dopo tutti questi segni, domande e risposte, si passa alle parole. Parola di passo = Laico pagnotta bruna. Parola sacra = Nelle nuove Comete che sorgono a notte serena. Queste parole si profferiscono da sillaba a sillaba, da tutti due questi, che si stanno riconoscendo. Dopo le parole di passo e sacra, vi sono le seguenti altre domande. Come si veste da Laico? Con una veste negra lunga foderata di giallo, calzette rosse, pantofole ai piedi con barba lunga, cappello largo, con una corona con testa di morto a mano dritta. Trovato egli regolare nel primo grado, si passa a conoscere se ha il secondo, cioè quello di Eremita. Siete voi Laico? Laico sono e son passato Eremita. Dov’è il vostro eremitorio? Io sono qui fermo. Dopo queste semplici domande e risposte si passa alle parole. Parola di passo = Eremita pagnotta bianca. Parola sacra = O religione o libertà o morte. Queste parole si pronunciano una per ciascheduno l’ultime d’ambedue in sillabe”. Tale macchinoso cerimoniale o, come si diceva allora, “catechismo”, lo ritroviamo, salvo trascurabili variazioni sia nella setta degli “Eremiti Buon Fratelli”, sviluppatasi nell’aquilano in quello stesso periodo di tempo, che fra gli “Scamiciati”, associazione carbonara del casertano3. Nell’arco di un paio di mesi la solerte polizia borbonica era riuscita ad individuare ben 51 affiliati o presunti tale, alla nuova setta carbonara.
Un rapporto degli organi di polizia così sintetizzava: “… di tutte le indicate operazioni è stato il buon ordine costantemente mantenuto e la fermezza usata nell’eseguirle ha fatto sullo spirito pubblico una forte impressione, da cui è da sperarne utile risultato”. Riportiamo i nominativi dei “settari”, raggruppandoli per paese di appartenenza ed indicando, dove possibile, l’età, la professione o il ceto sociale. Arce (17): Celso Carducci, 29 anni, possidente; don Eleuterio Ciolfi, 51 anni, possidente, domiciliato abitualmente a Napoli; don Eleuterio Simonelli, 55 anni, legale; Gaetano Balestrieri, 27 anni, ferraro, domiciliato a Roccasecca; Pasquale Quattrucci, 33 anni e Vincenzo Quattrucci, 34 anni, possidenti, detenuti nella prigione di Aversa per reati comuni; don Giuseppe Quattrucci, 44 anni, benestante; Giambattista Quattrucci, 34 anni, possidente; Raffaele Quattrucci; Luigi Germani, detto “Zinocchiello”, 28 anni, notaio; Antonio Quattrucci, 33 anni, possidente; Rocco Ciolfi e Giambattista Dammasio, latitanti e “rifugiati ne’ confini del territorio di Arce in alcune casette rurali”; Pasquale Calcagni; Luigi Quattrucci; Rocco Compagnone e Gennaro Ciolfi. Isoletta (4): Antonio Sacchetti, 25 anni, possidente; Antonio Senatori di Messina, 44 anni, appartenente alla forza armata doganale e domiciliato da tempo ad Isoletta; Giuseppe Forte, 44 anni, possidente; Antonio Tancredi. Rocca d'Arce (6): Antonio Ferraiolo, 43 anni, calzolaio, domiciliato a Lenola; don Luigi Forte, 52 anni, legale; Carlo Ferraiolo “abilitato dall’Intendente della provincia perché affetto da grave malattia cronica, tumore bianco nell’articolazione del ginocchio destro”; Pietro Belli, 33 anni, possidente, domiciliato a Roccasecca; Giuseppe Belli, 28 anni, possidente, domiciliato a Roccasecca; Luigi Ferraiolo, 55 anni falegname, domiciliato a Roccasecca. Fontana (3): Berardino Patriarca, “speziale” (farmacista) e Cipriano Tirolò, “molinaro”, domiciliati entrambi a Pontecorvo dove vennero arrestati il 16 luglio del 1823 e consegnati dalle forze pontificie a quelle del Regno; Luigi Lucchetti, 46 anni, medico. Roccasecca (13): don Mariano Coarelli, 60 anni, medico; don Federico Giovinazzi, 35 anni, prete; don Raffaele Giovinazzi, 20 anni, possidente; don Tommaso Giovinazzi, 32 anni, possidente; Benedetto Patamia, 26 anni, sartore; Antonio Antonelli, 32 anni, bracciale; Alessandro Merolla, 50 anni, calzolaio; Antonio Picozzi, 37 anni, sartore e barbiere; Gregorio Panzini, 52 anni, proprietario; Giuseppe Coarelli, 33 anni, possidente; Pietrantonio Staci, 32 anni, bracciale; Eugenio Jucci, 23 anni, falegname; Francesco Rossini, 27 anni, bracciale, altrimenti detto “il figlio di Maria Giuseppa la spazzina”. Sempre a Roccasecca non fu arrestato Pasquale Parnoccia “perché latitante perché imputato di omicidio”. Pico (1): don Costanzo Pompei, 59 anni, arciprete; San Giovanni Incarico (1): Antonio Rampini, 44 anni, possidente; Colle San Magno (1): don Francesco Saverio Frezza, 47 anni, possidente. Arpino (1): Biagio Romano, calzolaio, “assente”. Completano il lungo elenco don Polidoro Vincenzo Belardinelli di Campatesa in Molise, ex religioso domenicano, Vittorio Casciano, di cui non si conosce la provenienza, “un individuo non liquidato di nome, di condizione pettecchiaro, del comune di Arpino, domiciliato in Roma”, ed un “altro individuo non liquidato di nome di condizione fabbricatore, del comune di Arpino, domiciliato in Roma”. Fermiamo ora la nostra attenzione sui “settari” di Roccasecca “luogo del Regno … ove si tenevano delle continue sedute carbonarie”. Dei 13 implicati nel procedimento, ben 5 appartenevano al ceto borghese di professionisti, benestanti e proprietari terrieri; altri 4 erano artigiani, tre “bracciali” ed infine un sacerdote.
Si può comprendere quindi, considerata anche la condizione sociale degli altri imputati, come l’attività “sovversiva” era una prerogativa esclusiva dei ceti medi e borghesi, del tutto preclusa o quasi alle categorie meno abbienti. Gli stessi “bracciali” di Roccasecca, che compaiono nell’elenco, erano legati da vincoli di vario genere agli esponenti più in vista, come nel caso di Pietrantonio Staci, “compare” di Benedetto Patamia. Fra gli imputati il più noto era senz’altro il “dottor fisico” don Mariano Coarelli, nato nel 1762 a Caprile di Roccasecca, primogenito di una famiglia (anche il padre Paolo aveva esercitato la professione medica) che accanto ad una numerosa nidiata di donne, comprendeva anche Carlo, pure lui medico, e Giuseppe (1789-1873), possidente, coinvolto nella stessa vicenda giudiziaria. Arrestato il 17 aprile del 1823 assieme a don Tommaso e don Federico Giovinazzi “perché imputato di aver fatto parte della setta intitolata la nuova riforma di Francia”, fu dapprima rinchiuso nelle carceri di San Germano e poi trasferito, come tutti gli altri, “nel castello di Capua”. Interrogato a Caserta il 7 maggio da Vincenzo Marchese, commissario di polizia della provincia di Terra di Lavoro, rivelò di essere stato “iniziato nella Carboneria nel di 4 ottobre dell’anno 1819 in Sangermano da un tale don Vittorio Monaco di Piedimonte, nel distretto di Sora, col grado di apprendente”. Dopo lo scoppio della insurrezione costituzionale, nel luglio del 1804, fu “chiamato a diriggere una vendita in Roccasecca, col grado di Gran Maestro”, impegnandosi in una intensa attività di proselitismo. Della sua “vendita” facevano parte anche Federico, Tommaso e Raffaele Giovinazzi (da lui personalmente “iniziati”) e Benedetto Patamia, tutti implicati nella vicenda processuale. Nel corso dell’interrogatorio negò invece con decisione la sua appartenenza alla “Nuova Riforma di Francia” della quale anzi è “la prima volta che sento parlare … non avendo avuto finora la minima idea”. A quanto pare le sue dichiarazioni vennero considerate, almeno in parte, veritiere; la commissione militare di Terra di Lavoro infatti deliberò che Mariano Coarelli, assieme al fratello Giuseppe e ad Eugenio Jucci, rimanesse “sotto mandato per più ampia istruzione colla multa di ducati 500 e carcere”. Tutto sommato quindi se la cavò a buon mercato considerata la sorte che le autorità borboniche riservarono ad altri compaesani. La sua posizione processuale, che all’inizio appariva assai pesante, fu in seguito stralciata; acclarata la sua estraneità alla setta dei nuovi riformati di Francia, finì per essere giudicato solo per gli antichi trascorsi carbonari. Probabilmente dovette la sua salvezza anche ad influenti amicizie napoletane, non ultima quella del marchese don Felice Amati5, anch’egli di Roccasecca che, dal 1822 al 1830, fu “Ministro segretario di Stato per gli Affari Interni”, uno dei più importanti incarichi in seno alla corte regia, anche se non inglobava l’ordine pubblico rientrante nella competenza del ministero di Polizia.
Il 27 marzo del 1824 però eluse il provvedimento: e così il 2 agosto dello stesso anno fu condannato per “il suo apparto dalla Real Piazza di Capua” ad una multa di 500 ducati. Non sappiamo se gli fu comminato anche il carcere, come prevedeva il provvedimento. Sta di fatto che terminò la sua esistenza a Caprile nel 1833, all’età di 71 anni6. Come andò a finire il procedimento per gli altri “settari” del luogo che avevano l’abitudine di radunarsi “nella diruta chiesa di S. Tommaso7 fuori l’abitato del Castello di Roccasecca”? Per alcuni decisamente male: è il caso di Benedetto Patamia e Raffaele Giovinazzi che, assieme ad Antonio Ferraiolo, vennero impiccati a Santa Maria Capua Vetere il 25 novembre del 18238. Altri non giunsero a vedere la fine del dibattimento come Tommaso Giovinazzi, fratello di Raffaele, che temendo per la sua sorte (nella sua abitazione infatti la polizia aveva rinvenuto “una decorazione settaria di rame inargentato indicante una picciola accetta”) si “recise la gola” con un rasoio da barbiere, nel carcere di Capua, il 15 giugno del 18239. Alessandro Merolla si ammalò mentre era in carcere e si spense nell’ospedale di Aversa nel novembre del 1825. Il sacerdote don Federico Giovinazzi, accusato di detenzione abusiva di armi, fu rinviato dalla commissione militare di Terra di Lavoro “al giudice competente per tale tipo di reati”. Antonio Picozzi e Pietrantonio Staci, accusati di aver visto tra le mani di Benedetto Patamia la medaglia dei settari e di non aver denunciato il fatto, furono rinviati “alla Gran Corte Criminale della provincia per l’uso conveniente di giustizia”10. La commissione militare poi pose “in libertà provvisionale” Antonio Antonelli e Gregorio Panzini “attesochè non possono sorgere altri indizj di reità sul loro conto di appartenere alla nuova setta criminosa della Riforma di Francia”. Infine Francesco Rossini, ritenuto “non colpevole del misfatto di cui è stato accusato” fu rimesso anch’egli “in libertà provvisoria”.
1. Questa la collocazione esatta: Archivio di Stato di Caserta, Gran Corte Criminale, II Camera, Processi Penali, II inventario, fascio 366, procedimento n. 7090, fascicoli 1-3. Il fascicolo 3 reca la data del 28/9/1822, Arce, “Associazione settaria criminosa detta Nuova Riforma di Francia a termine del Real Ducato”. Contro: D’Ammasso Giambattista. Il fascicolo 1 invece è datato febbraio 1823, Roccasecca e Villa Santa Lucia, “Riunione della setta dei carbonari in danno del Real Governo”. Contro: Coarelli Mariano ed altri.
2. Dai verbali del procedimento si evince che i nastri della medaglia, emblema della “Nuova Riforma di Francia”, erano di colore nero, rosso, celeste e giallo.
3. La setta degli “Scamiciati” o “Escamisados”, era formata per lo più da vecchi “carbonari” venuti alla ribalta nei noti eventi del 18204. Si sviluppò a Caserta e paesi vicini (S. Nicola La Strada, Maddaloni, S. Maria Capua Vetere, allora S. Maria di Capua) ad iniziare dall’estate del 1823. Gli Scamiciati, oltre a favorire l’avvento della repubblica e la distruzione della monarchia, come tutti gli altri movimenti settari, “intendevano anche di dare aiuto ai sollevati di Spagna quando le armi francesi avessero sofferto qualche rovescio nella penisola” (Atto Vannucci: “I martiri della libliana dal 1794 al 1848”, L. Bortolotti e C., Tipografi-Editori, Milano 1877, vol. I°, pag. 219). I principali esponenti di tale setta, Pietrantonio De Laurentiis “impiegato nella fornitura” e ritenuto “capo e promotore della setta”, assieme all’armiere Giuseppe Carrabba “direttore della stessa”, furono condannati dalla commissione militare di Capua “alla pena di morte da espiarsi col laccio sulle forche”. La sentenza fu eseguita il giorno 16 dicembre 1823 nella Piazza del Mercato (oggi Piazza Mazzini) di S. Maria di Capua (“Giornale delle Due Sicilie”, giovedì 18 dicembre 1823, n. 299, pp. 1209 e 1210. Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III”, Napoli, sez. Lucchesi Palli, Periodici 123-C).
4. Il moto ebbe inizio il 2 luglio a Nola, ad opera di due ufficiali di cavalleria, Morelli e Silvati. Ben presto la sommossa si estese verso la capitale del Regno trovando un capo nel generale murattiano Guglielmo Pepe. Il re Ferdinando I fu costretto a concedere la Costituzione (13 luglio) che ricalcava integralmente quella di Spagna. Il nuovo governo costituzionale però, insediatosi fra l’indifferenza del popolo, si trovò di fronte ad ostacoli insormontabili. In primo luogo l’insurrezione separatista che scoppiò in Sicilia domata a fatica dal generale Colletta; e poi l’ostracismo delle potenze europee, specie dell’Austria, che vedeva con grande preoccupazione l’evolversi delle vicende nel napoletano. Nel congresso di Lubiana (gennaio 1821) al quale aveva preso parte il tremebondo re Ferdinando su incarico del Parlamento, si decise di ristabilire la normalità nel regno di Napoli, affidando l’incarico all’esercito austriaco. A Rieti (7 marzo 1821) l’armata costituzionale del generale Pepe si dissolse di fronte agli austriaci che così poterono entrare in Napoli, restituendo al re Ferdinando il suo potere assoluto. Era la fine del cosiddetto “nonimestre costituzionale”. I tenenti Morelli e Silvati, considerati gli iniziatori del moto, furono sottoposti a processo e, dopo un lungo dibattimento, condannati a morte (settembre 1822). (Pietro Colletta: “Storia del Reame di Napoli dal 1734 sino al 1825”, Milano 1930; Carlo De Nicola: “Diario napoletano dal 1798 al 1825”, Società Napoletana di Storia Patria, Napoli 1906; Benedetto Croce: “Storia del Regno di Napoli”, Bari 1931; Antonio Morelli: “Michele Morelli e la rivoluzione napoletana del 1820-1821”, Cappelli Editore, Rocca San Casciano 1969, II edizione).
5. Felice Amati nacque a Roccasecca il 17 maggio del 1762 da don Antonio e donna Teresa Colantoni dei Baroni di Collettara, Civitatomassa e Scoppitto. Trasferitosi a Napoli e laureatosi in giurisprudenza, ben prestò entrò a far parte dell’amministrazione regia, ricoprendo incarichi di tutto rilievo. Nel 1790 fu nominato amministratore finanziario e nel 1791 referendario degli affari economici della Calabria Ulteriore. Nel 1796 fu referendario del supremo consiglio delle Finanze. Tre anni dopo (1799) il re Ferdinando IV lo mise a capo della segreteria del cardinale Ruffo nel tentativo di frenare gli eccessi ed i disordini connessi alla riconquista del regno. Nel 1802 fu eletto Presidente della Regia Camera di Cappa e Spada. Nel 1808 Maestro dei Conti e l’anno successivo (1809) vice presidente della Corte dei Conti. L’occupazione francese del napoletano frenò la carriera dell’Amati che fu emarginato dalla nuova classe d’oltralpe. Con la restaurazione le cose mutarono radicalmente: nel 1817 Felice Amati fu nominato Direttore Generale del ministero delle Finanze. Nel luglio del 1820 il re Ferdinando I lo nominò “Ministro Segretario di Stato delle Reali Finanze”. Il 29 dello stesso mese però “è richiamato ad altre funzioni”. Nel settembre del 1821 diventò Consultore di Stato, mentre l’anno seguente fu nominato “Ministro Segretario di Stato degli Affari Interni”, uno degli incarichi più importanti in seno alla corte regia. Nel novembre del 1830, in seguito alla morte di Francesco I, Felice Amati fu esautorato dalla carica ministeriale. Da allora in poi, nonostante le pressioni, non volle più accettare altri incarichi. Si spense a Napoli il 16 gennaio del 1843 (C. Giuseppe Gattini: “Gli ultimi Amati da Roccasecca”, Matera 1903, pp. 6-12; Nicola Morelli: “Biografie de’ contemporanei del Regno di Napoli”, Napoli 1826; Fernando Riccardi – Pompeo Cataldi: “Roccasecca immagini e ricordi”, Frosinone 1997, pag. 120).
6. Archivio Parrocchiale Chiesa Santa Maria delle Grazie di Caprile. “Liber in quo defunctorum nomina adnotata sunt anno domini 1782 Parocchialis Ecclesiae S. Mariae Gratiarum Caprilis Roccaesiccae” (1782-1869). “Anno domini 1833 die 19 julii. D. Marianus q. D. Pauli Coarelli ed D. Mariannae Panniglia aetatis suae annorum 70 in comunione S. Matris Ecclesiae sacramentorum paenitaentiae, et sacri colei unctione robboratus, in domo paterna animam deo reddidit, eius corpus sepultum est in Ecclesia Parrochiali, et infidem Archip. Abbatecola”. Foglio n. 85, recto.
7. La chiesetta di San Tommaso, sulle falde del monte Asprano, fu edificata nella prima metà del XIV secolo, pochi anni dopo che il pontefice Giovanni XXII proclamò “Santo” l’impareggiabile Dottore Angelico (1323). In puro stile romanico la chiesa, anche all’interno, segue le linee di una estrema semplicità, denotata dallo splendido soffitto a travature lignee e dalla austera pavimentazione in cotto. Notevole un affresco raffigurante la Madonna del Rosario (XV secolo) ed un busto ligneo di SanTommaso risalente al 1633. Un altro dipinto con l’Angelico Dottore che reca fra le mani la penna della saggezza, si trova nella lunetta del campanile. Pesantemente danneggiata dai bombardamenti dell’ultimo conflitto bellico, solo nel 1980 la chiesa di San Tommaso, grazie a sapienti lavori di restauro, ha potuto riacquistare il primitivo splendore (Dario Ascolano: “Storia di Roccasecca”, Cassino 1997, II edizione, pp. 88, 89; Fernando Riccardi-Pompeo Cataldi, op. cit, pp. 122, 123).
8. “La commissione militare quindi dietro plenaria pruova risultante dall’unisono dell’ingenere, delle confessioni, e delle deposizioni, con cagionata decisione de’ 24 novembre ultimo (n.d.a 1823), dietro il parere dell’uomo di legge regio procurator generale presso la gran corte criminale di detta provincia (n.d.a Terra di Lavoro), condannò ad unanimità Antonio Ferrajolo, Benedetto Patamia, e Raffaele Giovinazzo, il primo qualificato come direttore e propagatore, e gli altri due come graduati, alla pena di morte, col laccio sulle forche, ed alla multa di ducati 1500 per ciascheduno”. ( “Giornale delle Due Sicilie”, op. cit., lunedì 1 dicembre 1823, n. 284, pag. 1149). Sulle tragiche vicende che portarono alla morte di Raffaele Giovinazzi e Benedetto Patamia, è in corso un accurato lavoro di ricostruzione storica a cura dello scrivente e del dott. Luigi Giovinazzi, ormai in via di completamento. L’opera, che nasce su impulso dell’amministrazione comunale di Roccasecca, vuole essere un doveroso omaggio a due valorosi concittadini (ad essi è dedicata nel centro storico del paese una strada ed una piazza) che, convinti della bontà dei loro ideali, seppero affrontare con coraggio il patibolo.
9. In una nota del Giudice Regio di Capua, datata 16 giugno 1823, contenuta nel fascicolo di archivio già citato, si legge: “Tommaso Giovinazzo q. D. Angelo di Roccasecca trovandosi da più tempo detenuto nel Castello di questa piazza, ieri da se stesso si diede violentemente la morte. Appena che n’ebbi la notizia, accorsi, ma si trovò già morto, tenendo recisa la gola. Da suoi parenti, che ivi stavano, ed anche da altra gente del Castello, mi fu assicurato, che il Giovinazzo avendo preso un contratempo, mentre il barbiere èrasi colà portato a fargli la barba, col rasoio si aveva coraggiosamente tagliata la gola. Un di lui fratello germano, specialmente per nome D. Raffaele anche detenuto in altra stanza del Castello assicura, che ciò sia stato effetto di un delirio del D. Tommaso, avendo più volte spiegato precedentemente, che voleva ammazzarsi per timore della condanna, che avrebbe potuto avere”.
10. La legge imponeva a chiunque di denunciare entro e non oltre 24 ore, alle competenti autorità di pubblica sicurezza, un “misfatto di lesa maestà”. E tale era considerato quello perpetrato dai “Nuovi Riformati di Francia”.
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